stereosound ha scritto:Intendevo affermare che l'osservato,come tale,necessita dell'osservatore
Questa affermazione ritengo che sia - come ho già detto - in linea di principio (quella) corretta: afferrato il principio, è necessario però non darne poi delle spiegazioni semplicistiche, occorre almeno tentare di precisarlo, per es. ed in particolar modo con riferimento all'osservatore (chi sia, come si "comporti" nell'atto di percepire, et c.).
Sempre per es., una volta introdotta la figura dello sperimentatore o osservatore, in quali e quanti modi la corrispondenza biunivoca tra fenomeno ed osservatore si sostanzia?
Se mi rifaccio alle cose dette in questo thread principalmente da te e da nullo, mi verrebbe da dire che tali modi siano "minimo" due (ecco perché in un altro post dicevo che uno parla di qualcosa, l'altro di qualcos'altro): e ritengo sia necessario precisarlo non per stabilire "a priori" un modo corretto ed uno meno corretto di intendere la questione, ma per addivenire innanzitutto ad un comune terreno di dialogo, anche se a taluno la cosa può apparire superflua (in realtà è da questo genere di fraintendimenti che nasce una gran parte dei problemi di comprensione, sia sui termini della questione, sia circa i reciproci approcci).
stereosound ha scritto:Luc1gnol0 ha scritto:L'apparente, ingannevole semplicità di tali domanda e risposta riguarda anche il tuo interrogativo iniziale:
stereosound ha scritto:E' corretto parlare,secondo voi, di suono fisico distinguendolo da quello percettivo?
Se non altro perché (vedi "considerazioni di posizione"), si può dire in maniera assai imperfetta, almeno gli aggettivi "fisico" e "percettivo" non sono elementi dati, ma abbisognano di una una elaborazione (dimostrazione).
Perchè la domanda dovrebbe essere ingannevole!
Potrebbe ingannare chi la pone e chi la intende perché - almeno all'apparenza - non ti poni il problema della definizione (logica e terminologica) dei termini (vedi sopra): quando io dico "fisico" e "percettivo", sto qualificando implicitamente come "esistenti" questi due aggettivi e, parafrasando (liberamente & impropriamente) Saussure, i lemmi sono diacritici, operano solo in virtù di una diversità, di uno scarto che li differenzi dagli altri lemmi, e non evocando dall'inizio una significazione "positiva" (i.e. che pone).
Se per ora tutti sembriamo convenire grossomodo che non "esista" un suono se non c'è chi lo percepisca (ma magari poi interverrà qualcuno che non la pensa così), di certo non sembriamo d'acchito altrettanto convintamente concordi su cosa possa essere un suono quando invece c'è qualcuno che lo percepisca.
Il fenomeno fisico alla base del suono, una variazione di pressione, è rilevabile con un microfono (o, visto che ci piacciono i tubi, con un catodofono), per cui, se non altro in virtù di quello che (mi pare) von Glasersfeld definiva "realismo metafisico", è anche ricostruibile almeno un perché tra quelli per cui c'è confusione sul tema (se esista un suono fisico in opposizione a qualcos'altro): se odo un suono in presenza di certe onde di pressione, dico quel suono esiste "realmente", "fisicamente", ed
*è* proprio quelle onde che, dati certi presupposti, posso anche misurare esattamente, cioè "conoscere" realmente, veramente (per molti versi è un errore ritenere ciò, sia chiaro, ma è pure un qualcosa che per molti altri versi "funziona" abbastanza bene da circa centomila anni).
Un problema interpretativo maggiore pare porsi già col termine "percepito": che cosa vuol dire "suono percepito"? D'acchito tu sembreresti dare per scontato una sorta di comune conoscenza della "percezione", che un "suono percepito" da un osservatore sia tale e non altro, e che ciascuno possa riconoscere questa particolare "essenza" del "suono percepito".
Cosa che, all'evidenza mia, per ora non è: un australopiteco come Lucy percepirebbe un suono, tipo quello risultante dal battere tra loro due legnetti cavi, così come lo percepisci tu (od io)? E se così - in ipotesi - non fosse, la differenza nella percezione risiederebbe nelle differenze fisiologiche tra sapiens ed australopiteco, risiederebbe nell'esperienza personale tua, mia o di Lucy, ovvero nell'evoluzione sociale degli ultimi quattro milioni di anni, ancora in qualcos'altro, o magari in tutte queste cose (e, nel caso, in che misura)?
Se togli dal discorso l'iperbole di Lucy, due osservatori della stessa specie ma diversi hanno una "stessa" percezione?
Al principio del discorso, nulla ci autorizza ad escluderlo, ed ancora meno a ritenere una simile, eventuale assunzione come fondata: per questo mi sembra necessaria una elaborazione, una dimostrazione, attraverso la quale (cioè dai perché o percome si possa ritenere o meno tra i due osservatori l'equivalenza della percezione) si potrebbe provare ad individuare quei fatti o proprietà che servono a qualificare come "percepito" un "suono" (e che tu invece ora sembri quasi dare per sottintesi ma certi, per comunque esistenti).
Ed una simile elaborazione non mi pare che possa prescindere da una definizione del termine "percepito" (o di percezione, se preferisci): quando dici «
al mondo appartiene il fisico, alla persona il percettivo» sembri (innanzitutto) dimenticare che la persona fa parte del mondo, e se è plausibile che l'osservatore "crei" il suono, quello (o una parte di quello) che "crea" il suono è ancora una parte di "mondo" (l'apparato fisiologico stesso: per cui, ad un livello ulteriore, davvero "fisico" e "percepito" sono sempre antitetici? Non dipenderà - pure - l'antitesi dall'accezione - più o meno lata - con cui intendiamo i termini?).
Per cui, come anche nullo ti ha chiesto (con altre intenzioni suppongo) più volte, che cos'è un "suono percepito" (per poterlo contrapporre al "suono fisico")? E` una nozione davvero da considerare ai nostri fini alla stregua di un "dato di fatto"?
Mi rendo benissimo conto che le mie parole possono suonare (è proprio il caso di dirlo) come l'ennesimo "parlarsi addosso", il mio stavolta, in parte perché, come anche Wittgenstein insegna, definire cose come le parole non è mai affatto banale, in parte perché non ho provato ad impostare (pour cause) un ragionamento deduttivo.
A che cosa reagisce il soggetto che osserva, tu, io (o Lucy)? Quando si parla di "suono percepito" si da per scontato questo: a che cosa reagiamo, che cosa osserviamo? Se non ce ne occupiamo, semplifichiamo forse alcuni termini della questione, ma molto probabilmente rischieremmo di prendere delle cantonate.
A me sembra, se non certamente ovvio, senz'altro abbastanza plausibile che, se ci limitassimo a considerare "solo" l'osservatore (visto che in ipotesi è quest'ultimo che "crea" il suono), se solo la sede dell'elaborazione
*è* (diventa) il "suono" (specularmente alla contrapposta ipotesi in cui solo il campo fisico è il suono), porremmo implicitamente l'indifferenza di questo "suono" allo stimolo, all'origine ed alle caratteristiche di quest'ultimo. Così facendo però, quello che abbiamo messo fuori la porta (l'equivalenza tra campo fisico e "suono"), rischia di rientrare dalla finestra: se il campo fisico (banalizzando, le variazioni di pressione) non "crea" il suono, se non apporta "informazione", o meglio, se esaurisce tutto ciò che a livello di informazioni lo stimolo apporta al soggetto, allora non è tanto scontato che non esista un "suono fisico", che il sistema non sia descrivibile (almeno parzialmente) in termini di campo fisico. Di più, l'ipotesi contraria può condurre alla constatazione dell'arbitrarietà di questo "suono percettivo", quando non all'inconoscibilità "tout court" (cosa che, perlomeno la storia della musica dimostra come falsa).
Faccio un esempio legato alla visione che, come spesso accade, è più precipua alla nostra esperienza sensoriale, e comunque (forse per questo) meglio indagata dalla "scienza".
Dato un oggetto, la sua cd. "luminanza" si determina essenzialmente dalla luce che vi cade sopra, da quella che la sua superficie riflette, e dalla trasparenza dello spazio che insiste tra l'oggetto e l'osservatore. La percezione della luminanza di un oggetto da parte di un osservatore è detta "brillanza" e non c'è una corrispondenza semplice tra luminanza e brillanza: innanzitutto basta che vari uno qualsiasi dei fattori indicati, per alterare la brillanza percepita. Classico è il caso dei due oggetti identici, con identica luminanza, posti l'uno a fianco all'altro ma uno su sfondo scuro, l'altro su sfondo chiaro: nel primo caso la brillanza sarà percepita come maggiore. In pratica si osserva, nel caso della visione, che non c'è una relazione fissa tra la sorgente di uno stimolo visivo e gli elementi che si combinano per produrre quello stimolo, ed allo stesso modo il nostro sistema visivo non è in grado di percepire come questi elementi si combinino per produrre i valori di luminanza dell'immagine che si imprime sulla retina dell'osservatore. Alcuni studiosi (Purves-Lotto, Duke University) hanno affermato che l'origine di un simile sistema di visione ha probabilmente radici di tipo funzional-evolutive: un comportamento di successo richiede risposte compatibili con l'origine dello stimolo, e non con le proprietà misurabili dello stimolo stesso, e questa compatibilità la si può desumere solo dall'esperienza passata (singolare o collettiva) dell'osservatore.
Se questa idea è corretta (e se io non l'ho capita male!), allora nella misura in cui lo stimolo è coerente con superfici bersaglio dotate di riflessione simile sotto una stessa fonte di luce, i bersagli dovranno tendere ad apparire all'osservatore come dotati di uguale "brillanza": tuttavia, per quanto lo stimolo sia coerente con l'esperienza passata che il sistema visivo ha di oggetti con differente proprietà riflettente e differenti livelli di illuminazione, gli oggetti bersaglio tenderanno ad apparire di brillantezza diversa, e questo sembra suggerire l'esistenza di meccanismi interni al soggetto sperimentatore - in parte innati e comunque automatici - di una sorta di controllo di "compatibilità" (qualcuno forse direbbe di "congruenza") tra la sorgente dello stimolo, lo stimolo e la brillanza percepita.
E - domanda mia a te - se la frequenza, o l'ampiezza, o altre proprietà misurabili di una onda di pressione non sono le caratteristiche prese in considerazione dall'udito, così come la luminanza di un oggetto non è la sua brillanza percepita da parte della visione, quali sono le caratteristiche degli stimoli esterni che sono invece rilevanti? Ce ne sono? E se del caso, come rilevano?
stereosound ha scritto:Luc1gnol0 ha scritto:stereosound ha scritto:"Esiste una scienza dell'osservazione?"
Questa domanda la capisco ancor meno (cioè per nulla).
Intendevo sottolineare che non esiste una scienza dell' "osservazione" vera e propria...non si è sviluppata,almeno così sembrerebbe, nessuna metodologia(riconosciuta come scienza) capace di esaminare ed approfondire sistematicamente i vari aspetti dell'osservazione.
Mi sembra che, per poter dire che «
non esiste una scienza dell' "osservazione" vera e propria...», prima occorra che siano acclarati i concetti (ed i termini) di "scienza" e di "osservazione".
Per esempio, anche se non tronco la tua frase dopo "vera e propria...", mi pare plausibile poter affermare che proprio la scienza *è* la metodologia dell'osservazione, salvo poi dover precisare "scienza" con l'aggettivo "moderna" (per vari motivi, a cominciare da quello che ai tempi di Aristotele la scienza sfumava nella filosofia e nella religione), e successivamente dover magari parafrasare la locuzione "scienza moderna" con "metodo galileiano", per avere infine una espressione che suoni (pun intended!) all'incirca così: "il metodo galileiano *è* la metodologia dell'osservazione".
A questa espressione apparentemente un filo più soddisfacente (per aver tentato di spiegare/precisare/definire almeno il termine "scienza") si può però immediatamente contrapporre quanto detto (in altre forme) da tutti i partecipanti a questo thread, ben esemplificato dalla critica di Popper nel suo "Logica della scoperta scientifica" del 1959, e cioè che «noi possiamo vedere solo ciò che la nostra mente produce: una teoria può essere sottoposta a controlli efficaci e dirsi scientifica solo se formulata a priori in forma deduttiva. La peculiarità del metodo scientifico consiste nella possibilità di falsificarla, non nella presunzione di "verificarla"».
Questa, come altre critiche o come i dibattiti sulla nozione di "metodo scientifico" (se sia induttivo, deduttivo, et c.) le ritrovi in Wikipedia (da cui l'ho copia-incollata), istituzione benemerita che ha senz'altro il pregio di stabilire in maniera facilmente accessibile un idem sentire, o meglio, di riportare nozioni relativamente verificate e comuni ai più, e che mi interessa proprio per questo (visto che avverto innanzitutto la mancanza di un terreno comune di dialogo).
A livello di conoscenze comunemente diffuse (e non palesemente false) mi pare che possiamo dire che non ci sia una definizione unitaria (o meglio, inattaccabile) di metodo galileiano o scientifico, e nemmeno di "metodologia di osservazione": per cui, anche se retoricamente, trovo difficile domandare (rispondere) se esista qualcosa che non è stato definito (e che "normalmente" non si riesce a definire in maniera pacifica nell'universo mondo).
A livello personale mi viene comunque da rispondere (anche se la tua domanda è dichiaratamente retorica) che probabilmente, spesso e volentieri, non si è correttamente applicata né logica formale, né arte della deduzione, né il metodo galileiano alle osservazioni, per colpa di errori sistematici, per colpa del "realismo metafisico", ed anche per quelle che Stolzenberg definiva "considerazioni di posizione", e da tutto ciò se ne è tratta la conclusione che non può esistere un qualcosa chiamato "corretta metodologia delle osservazioni" (o quella equivalente che un fenomeno non fosse "scientificamente osservabile").
Ok, ho scritto abbastanza cazzàte, vado a riveder le stelle...